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lunedì 28 maggio 2007

Sartorius parla delle amministrative spagnole

Le elezioni amministrative, che hanno coinvolto 35 milioni di spagnoli, non puniscono la sinistra né la destra: i popolari compiono il sorpasso in numero di voti assoluti (circa 160 mila in più) e i socialisti conquistano amministrazioni.
Anche il governo può essere soddisfatto, perché se gli elettori avessero accettato il tentativo del Pp di convertire le elezioni in un referendum sulla politica terrorista dell’esecutivo, questa sarebbe stata sostanzialmente approvata.
Un voto vissuto dai partiti come un test delle prossime politiche ma utilizzato dai 35 milioni di elettori per esprimersi sui contesti locali nei quali è maturato.

Ne parliamo con Nicolás Sartorius, vice presidente esecutivo della Fondación Alternativas, conoscitore della politica (e dei dati elettorali). Figura storica della sinistra e del sindacalismo spagnoli, non per questo meno autorevole e illuminante. Questo testo è una versione estesa dell'intervista pubblicata su
Europa.

«Si possono fare varie riflessioni. È aumentata l’astensione di circa tre punti, il che denota una stanchezza di un settore dell’elettorato, soprattutto catalogna e Andalusia. Il Pp ha vinto in voti assoluti, ne ha ottenuti 160 mila in più. Il Psoe aumenta in quanto a eletti, al numero di capoluoghi che governerà e di Comunità autonome. Il Pp perde 14 capoluoghi e ne vince due, perde la maggioranza assoluta in tre territori molto importanti, Navarra, Isole Baleari e Canarie, dove il Psoe potrebbe governare in coalizione con altre forze. Il Psoe ha tutta le città di Galizia e Catalogna, ne conquista nel País vasco e in Navarra, in zone molto “sensibili” dove il Pp arretra. Mentre a Madrid ha avuto un successo molto importante, come a Valencia, territori che già controllava. La mia opinione è che, dal punto di vista del potere territoriale, il risultato è buono per il Psoe e il Pp si consola col numero dei voti assoluti».

Il voto può essere considerato un test per le politiche?
Il PP ne ha voluto fare un test nazionale ma in realtà la gente ha votato pensando al territorio. Approfondendo il dato si osserva, si vede studiando i dati elettorali che è molto varaiato perché il voto è locale e non hanno tenuto in conto il dibattito generale.

I partiti si sono scontrati anche sulla politica antiterrorista, non solo perché si votava nel País vasco, con quali risultati?

Bisogna dire che da questo punto di vista nessuno dei due ha ottenuto quello che voleva. Il PP non ha avuto un chiaro voto di castigo per Psoe, che se non fosse stato per Madrid, è avanti ovunque.

Il voto in Navarra come riflette l’acceso dibattito nazionale sulle politiche anti terroriste.

Lo riflette nel senso che i navarresi non hanno creduto alla propaganda della destra, che se non si votava a destra la Navarra sarebbe diventata parte del País vasco e avrebbe perduto la sua identità. E hanno castigato il Pp navarrese, l’Upn, per la prima volta il Pp perde la maggioranza assoluta e la cosa più probabile è che non governerà. In Galizia, Extremadura, Catalogna il potere del Psoe è aumentato malgrado la politica antiterrorista di Zapatero fosse stata dipinta come una catastrofe per il Paese. La gente non lo ha creduto.

Come leggere l’astensione?
È stata molto differenziata, a seconda dei territori. In Navarra c’è stata una enorme partecipazione [73%, due punti in più del 2003 - NdR], l’astensione c’è stata soprattutto in Andalusia e Catalogna: i tre punti in più vengono soprattutto da lì. Può avere molte cause. C’è n’è una tecnica, che si produce sempre, ed è attorno al 30%. Nelle elezioni municipali, come in questo caso, ci possono essere motivazioni locali, può essere un prodotto della corruzione politica o di dinamiche proprie delle politiche locali. Poi può esserci un’astensione prodotta dalla crispación, ossia lo scontro sistematico fra i partiti, che porta all’astensione una parte degli elettori che non considera produttive le liti tra i partiti. Per quanto riguarda la Catalogna, credo che sia dovuto al processo statutario, nel quale l’atteggiamento dei partiti non è stato edificante, che ha stancato un settore dell’elettorato catalano che si è astenuto. E stanchezza elettorale, vengono da quattro consultazioni di seguito, e in più non c’erano autonomiche. L’astensione è stata alta dove non c’era il traino delle autonomiche e ha colpito entrambi i partiti.

Torniamo alla “valanga popolare” di Madrid...
Credo che il Partito socialista ha fatto errori importanti. Da molto tempo la federazione socialista madrilena ha continue lotte interne, nel partito ci sono battaglie che vanno avanti da molti anni. Poi, i candidati non erano dei migliori rispetto a un obiettivo come Madrid, e non si è presentato un progetto che potesse attrarre molti settori della sinistra. È un insieme di fattori: non hai un buon candidato, non hai un progetto e il partito che c’è dietro non è forte: il fallimento è assicurato.

Le elezioni politiche si tengono a marzo, come ci si arriverà, alla luce di questi risultati?
Credo che il Pp continuerà la stessa politica di scontro e di opposizione dura al governo, anche se è probabile che il leader, Mariano Rajoy, adotti atteggiamenti verbalmente più moderati.
Il governo tenterà di utilizzare questi mesi per accentuare le politiche sociali e dei diritti. Soprattutto, utilizzare la prossima finanziaria per fare una politica avanzata in materia. Punterà sugli aspetti economico sociali, che vanno bene, e tenterà di recuperare quei settori che si sono astenuti questa volta. È probabile che alle politiche l’astensione sarà molto minore, non credo che il governo debba essere particolarmente preoccupato.
Il Psoe deve prendere misure, anche energiche in casi come Madrid, ma il governo affronta le generali con posizioni molto più solide sul piano municipale e autonomico. E per vincere le politiche è molto importante avere un buon potere municipale e autonomico.

sabato 5 maggio 2007

L'Estatut? Non è valsa la pena

Questa intervista, pubblicata in esclusiva dal quotidiano Europa il 25 aprile, viene qui presentata in una versione estesa.
I temi sono quelli della costituzione del Partito democratico in Italia, della necessità che Spagna e Italia formino un asse affinché l'Europa guardi più al Mediterraneo e la situazione catalana. Con sorprendenti riflessioni sullo Statuto catalano che hanno scatenato enormi polemiche in Spagna (qui un post che ne raccoglie le principali).


Pascual Maragall, presidente del Partito socialista catalano (Psc), è un autorevole ospite del Congresso della Margherita. È stato il sindaco del rinnovamento di Barcellona, dall’83 al ‘97, e presidente del governo catalano dal 2003 al giugno scorso. Conosce bene l’Italia, dove ha insegnato nel ’97/’98 e segue con interesse la costituzione del Pd, che vede come il primo partito europeo della storia.

Il Pd italiano

Visto dalla Spagna, e quindi dall’Europa, come si vede il processo di costruzione del Pd?
Credo che in Spagna c’è ancora un effetto sorpresa. È un progetto che incomincia a delinearsi e io credo che sia un progetto di rottura, di profonda innovazione, perché stabilisce una nuova dimensione: un partito politico europeo. E in più un partito democratico, cioè che vuole essere a largo spettro, non un partito ideologico tradizionale. In questo senso si deve ancora vedere l’impatto che questo avrà in Europa e particolarmente in Spagna ma in ogni caso sarà importante. È un’innovazione che è pensata nella dimensione corretta: la realtà di oggi di questa nuova nazione che si chiama Europa.

Un processo che offre spunti anche fuori dall’Italia, quindi?

Le due novità di questo partito sono la dimensione ideologica molto ampia ma anche la dimensione geografica. L’interesse che ha per noi è la possibilità della costruzione di un autentico partito europeo. Di sinistra, progressista, liberal-progressista, lo si chiami come si vuole, ma che rompe con la tradizionale derivazione ideologica molto marcata. Io credo che in Spagna il Psoe, col Psc e il Pse [il Partito socialista basco – NdR], devono prendere appunti su questa nuova realtà e vederla come un’opportunità e non come un pericolo o un competitore. Il Partito democratico europeo non è un competitore del Partito socialista europeo ma è un’offerta, un invito a ampliare orizzonti ideologici e geografici.

Ci sono posizioni differenti riguardo all’appartenenza al Gruppo socialista europeo. Per lei si pone il problema di un suo superamento?

Io capisco che il proposito di combinare storie diverse nel Pd in Italia sia già complesso e che sei poi in Europa si fa parte del Pse è ancora più difficile. Se si guarda agli Usa, nei Democratici c’è Obama, Ilary Clinton, esponenti del sud che sono molto conservatori. Il fatto è che a larghi spazi ideologici deve corrispondere una larga varietà di matrici. Credo che ci si stia abituando a questo: un partito non è una chiesa e non deve esserlo, è uno spazio nel quale si sta, più o meno comodamente, più o meno minoritariamente, naturalmente, ma io credo che questa è un’idea che si imporrà anche in Europa: un Partito popolare europeo e un Partito democratico europeo. Perché quello che è decisivo è la dimensione, è l’Europa, è lo spazio. Una realtà che, a differenza degli Usa, ha molte lingue, ha avuto molte guerre interne, ha molte diversità e, nonostante questo, sta creando un nuovo spazio di dimensioni adeguate. Perché nel mondo le economia di scala contano anche in politica, non puoi competere se non hai la dimensione adeguata: l’Europa lo ha visto, voi italiani lo avete visto. Credo che questa è la strada che porta a due grandi partiti europei. Con molte difficoltà, certo. Mussi che va, qualcuno che viene, i tedeschi che non lo capiscono, i britannici che sono scettici.

Da vecchio socialista cosa direbbe a coloro in Italia che non vogliono perdere la loro appartenenza di sinistra?
Quello che dobbiamo tutti capire è che c’è una tendenza: nella misura in cui il mondo si va globalizzando, lo scenario si amplia e gli attori sono di più, hanno più spazio. È quello che voi italiani avete visto. Altri non ancora.

Lo Statuto? Un errore.

Parliamo un po’ della Catalogna. Un governo di sinistra dopo 23 anni e il nuovo Statuto.
La sinistra di fatto già vinse le elezioni nel ’99. Quando tornai da Roma e ci presentammo vinse in voti non in seggi, perché il governo non aveva presentato la legge elettorale e si calcolava il numero dei seggi ancora in virtù di una disposizione transitoria del 1979 molto favorevole alla destra.
Nello statuto del ’79 era proporzionale ma la legge non si compì, si favorirono le circoscrizioni agrarie meno popolate dove la destra nazionalista aveva più voti. Questo ritardò il cambio in Catalogna. Io credo che commettemmo un errore: progettare la riforma dello Statuto anziché luna riforma della Costituzione. La riforma della Costituzione è impossibile? Sì, probabilmente, ma anche quella dello Statuto è stata impossibile, non è approvato, c’è, è vigente ma in forma provvisoria, c’è un ricorso al Tribunale costituzionale. Visto col senno di poi, valeva la pena tanto sfrozo? 287 articoli, specificare le competenze della Catalogna, una per una, in ogni campo, l’economia, la giustizia... No, io credo ora che non è valsa le pena. Perché è uno Statuto che ancora non è del tutto stabile, è approvato in Catalogna, è approvato dal parlamento spagnolo, è approvato nel senato, con molte modifiche, ma anche così c’è un ricorso e passeranno ancora anni... Di modo che forse sarebbe stato meglio concentrarsi nel cambiamento dell’articolo 2 della Costituzione - la Costituzione spagnola è previa alla creazione delle autonomie - dove si crea la figura delle autonomie. Ma non ognuna, pertanto le 17 comunità autonome spagnole non sono raccolte nella Costituzione, il loro nome, i loro limiti, se vuoi. Quello che si dovrebbe fare è un cambiamento, aggiungere nell’articolo due un passo che nomini le 17 autonomie e dica che tre di esse sono nazionalità storiche: Catalunia, Euskadi e Galizia.

Perché il livello delle competenze è già alto.
Questo è già compiuto, per questo forse non c’era bisogno di tante discussioni.

Questa è la proposta di uno stato federale?
Sì. Federale differenziale.
Quando io stavo a Roma mi chiamò González e mi voleva convincere, cenando a Santa Maria in Trastevere, che mi presentassi candidato alle elezioni autonomiche del ’99. Io gli dissi: “Sì, non dico di no, ma a alcune condizioni”. Lui mi chiese: “A che condizioni”. “Il federalismo”. Lui disse: “Ma sarà federalismo cooperativo?”. “No, no, federalismo differenziale”. Perché in Spagna ci sono nazionalità. Negli Stati Uniti ci sono differenze tra est, ovest, nord, sud, ma non nazionalità, non lingue. Invece in Spagna sì, la Spagna è una nazione di nazioni. Il federalismo spagnolo, che ha una tradizione, questo è importante, denominava la Spagna come una nazione di nazioni. Alcuni dicevano non Spagna ma Iberia. Cosa che probabilmente in futuro si realizzerà. Con la sparizione delle frontiere sta accadendo. Quindi, tornando al punto, la Spagna è una nazione di nazioni, la Costituzione non lo dice, deve dirlo e deve nominarle. La riforma dello Statuto è stata una maniera indiretta di risolvere questo errore ma è stato tanto complicato che non ne valeva la pena.

Lei dopo l’approvazione dello Statuto lasciò...
Una volta approvato me ne andai. Avevamo conseguito le cose più importanti, quello che sembrava la cosa più importante, il riconoscimento delle competenze e dall’altro lato avevamo cambiato il contenuto della politica sociale, della politica urbana, i quartieri, c’è stata una devoluzione interna alla catalogna molto importante.

Un asse Italia-Spagna in Europa


Parliamo ora di Europa...
Europa non è l’asse Parigi-Berlino o franco-tedesca. Il compimento dell’Europa fu l’abbraccio di francesi e tedeschi dopo due guerre mondiali. Ma ora è il momento che Italia e Spagna dicano: "Siamo qua anche noi!". Europa non è solo parigi e berlino e Londra e il Banco dell’est. No Europa è anche il mediterraneo, la relazione con la Turchia, la Grecia, vedere che sta succedendo nel nord Africa. Non è solo questo, ma altre cose più importanti, ci vuole una Banca del mediterraneo.
Spagna e Italia devono impugnare questa bandiera: edificare l’Europa a partire dal sud, guardare all’est e al nord Africa. La materia irrisolta è questa. Nessuno lo ha fatto e io credo che sia importantissimo. L’Europa che si muove, quella di Rutelli, di Zapatero e Prodi, di Erdogan, speriamo, deve fare questo.

La dirigenza politica italo spagnola è cosciente della necessità di un “asse”?
Il mondo economico sì. Enel-Endesa, Autostrade-Albertis, questo è un fatto. A parte le lamentele di alcuni ultra liberisti c’è un asse tra imprese. Io credo che senza l’asse imprenditoriale Italia-Spagna, l’asse politico Europa-mediterraneo è più difficile.

Ma questo asse imprenditoriale è stato criticato perché accusato di assolvere a necessità politiche e non del mercato.

C’è un interesse politico che questo funzioni perché la politica ha bisogno di uno sfondo economico. Che sia liberale, corretto, rispettando la competizione, ma la politica deve anche guardare a curare degli interessi imprenditoriali strategici. Con molta attenzione, perché non si deve mai dire che l’economia viene sottomessa alla politica, che si fanno operazioni che non sono solide economicamente.